Per qualunque genere di canzone riteniamo che l’analisi musical-letteraria sia il metodo più giusto e assoluto per decretare la qualità delle canzoni italiane. Lunezia pone attenzione alle canzoni che avranno merito di entrare nell’Antologia della musical-letteratura. Con questo parametro di valutazione nascerà una ” Guida ” alle canzoni più belle secondo gli studi dei nostri esperti : un universo di capolavori che spazierà fra generi e autori di fantastica differenza.
Stefano De Martino – Autore Premio Lunezia
Lo studio che segue è stato redatto e sottoscritto dalla Redazione Musical-Letteraria del Premio Lunezia, formata da: Paolo Talanca (Responsabile di Redazione), Gabriele La Porta, Gianmaurizio Foderaro, Giuseppe Benelli, Monsignor Antonio Vigo, Riccardo Boggi, Roberto Sarra, Federica Gentile, Antonio Piccolo, Dario Salvatori, Alessandro Quasimodo, Maria Cristina Zoppa, Pierluigi “Piji” Siciliani, Marina Pratici, Roberto Benvenuto, Emma Sangiovanni, Giuliano Adorni, Stefano De Martino.
Questo esclusivo e innovativo parametro – coniato dal Presidente della manifestazione, Stefano De Martino – riconosce nell’unione tra testo e musica un altrettanto esclusivo inscindibile segno, una unità semiotica da valorizzare come “letteratura in musica”, quindi non antologizzabile e licenziabile unicamente come poesia tout court e nemmeno solo come “oggetto musicale”. La canzone così, tutta la canzone italiana, seguendo i dettami di uno dei sei fattori della “Teoria della comunicazione” di Jakobson, trova nell’aspetto musical-letterario l’individuazione del sistema di segni del proprio codice artistico. Chirurgicamente: unire parole e musica crea per il Lunezia un unico segno, l’insieme di questi segni rappresenta il codice musical-letterario.
Per il Lunezia, in altre parole, la canzone, dato che rappresenta un particolare tipo di comunicazione, non può accontentarsi di essere valorizzata separatamente nell’aspetto letterario o musicale, e il valore di un codice con cui veicolare un messaggio – d’amore, di protesta, di vita quotidiana, non è questo il punto – va riconosciuto secondo i parametri della musical-letterarietà.
Entrando più nello specifico: questo codice, una volta individuato, sarà degno di avere una autonoma letteratura o, meglio, musical-letteratura; così, quando l’unione di parole e musica sarà immediatamente convincente e celebrata dal pubblico o dagli addetti ai lavori, l’opera entrerà di diritto in un virtuale “Libro della storia della canzone”.
Quanto una canzone ha il diritto di entrare in questo libro e diventare “musical-letteratura”? Quanto una canzone ha il diritto di entrare nella Storia fino ad essere promossa a “modo di dire” o ad antonomasia? A queste domande risponde il parametro della musical-letterarietà.
Il livello di musical-letterarietà è uno dei parametri che darà vita, inoltre, a un futuro canone della canzone.
Aspetto importante è che, in una tale impostazione di valorizzazione, la canzone pop, la canzone d’autore e la canzone rock – tre importanti categorie, ma non le sole – non sono altro che tre generi, nell’accezione semiotica del termine che ne dà, ad esempio, una studiosa come Maria Corti: rapporto tra istanze contenutistiche e organizzazione formale. È il diverso uso del codice, il diverso motivo del suo utilizzo, che fa il genere. Si capisce bene che, in tale universo, i meriti estetici esulano dai parametri artistici soliti, per essere affrontati esclusivamente con il criterio della musical-letterarietà.
Questi generi diversi non verranno mai confusi, come nella letteratura non si confondono romanzo d’appendice e romanzo psicologico, o come Umberto Eco differenziava “romanzo consolatorio” da “romanzo problematico”, letteratura di consumo da letteratura autentica.
Per questo, nell’albo d’oro di una manifestazione come il Premio Lunezia, apparirà pertinente vedere autori opposti come Fabrizio De André e Biagio Antonacci, Gianmaria Testa e Laura Pausini.
Si capisce poi come in fase di creazione artistica un singolo autore possa avvalersi di organizzazioni formali derivanti da generi diversi: è il caso, per esempio, di un artista come Claudio Baglioni, Premio Lunezia 2003, che attinge da stilemi di canzone d’autore o di canzone pop.
Questi generi verranno celebrati – ciascuno nel proprio ambito, dai propri estimatori del pubblico e della critica – esclusivamente per il loro livello di musical-letterarietà, che il Lunezia si impegnerà sempre a motivare tramite la propria Redazione Musical-Letteraria, formata da critici del settore competenti e preparati, con alle spalle diverse pubblicazioni saggistiche sull’argomento.
La Redazione del Premio Lunezia ha in programma la pubblicazione di un volume antologico delle canzoni italiane secondo i meriti musical-letterari.
Essersi concentrati sull’aspetto musical-letterario non è altro che aver fatto ordine nell’ambito della ricerca di parametri più giusti per la valutazione delle canzoni.
PAOLO TALANCA
Se una delle principali caratteristiche del pop è la creazione di un’icona riconoscibile che sappia immediatamente provocare nel pubblico un’individuazione, una identificazione, una condizione emozionale subitanea, la canzone pop deve, tramite l’unione di parole e musica, riuscire a tener conto di queste caratteristiche e deve quindi essere modellata da questi motivi fondamentali.
Il testo deve essere un testo particolare, fresco e di veloce acquisizione, che sappia evitare l’utilizzo di termini inusuali per non spiazzare in nessun modo l’ascoltatore; la musica deve coinvolgere il più possibile con l’orecchiabilità e l’empatia, il tema deve essere a sua volta coinvolgente e deve tirare in ballo anche le esperienze personali di chi ascolta; la voce – forse l’aspetto più importante – deve essere immediatamente identificabile e deve risultare preziosa per il pubblico.
A tutte queste richieste rispondono positivamente, per esempio, la figura e le canzoni di Laura Pausini. L’artista romagnola valorizza la canzone italiana grazie alle indiscusse qualità canore, al forte livello emozionale dei brani proposti, al coinvolgimento immediato e immediatamente riconoscibile che le sue canzoni provocano nel pubblico.
Le canzoni di Laura Pausini si inseriscono nel filone della canzone melodica italiana e ne sfruttano tutta la capacità coinvolgente che da sempre la caratterizza, immergendole però nelle sonorità pop che garantiscono loro un riconosciuto respiro internazionale. Pur con temi leggeri come i patemi d’amore adolescenziali delle prime canzoni, si prenda La solitudine per tutte , la voce della cantante diventa un mezzo per esprimere i disagi del male d’amore e dei piccoli drammi giornalieri : nel brano si genera così una forza emozionale, un pathos, che è peculiare esempio del modo in cui la canzone Pop si avvale dell’arte musical-letteraria.
E ogni volta la voce della Pausini crea una chiara espressione riconoscibile, una icona pop come i lineamenti di Marylin Monroe in una serigrafia di Andy Warhol, sfrutta le medesime caratteristiche: succede questo, in riguardo alla riproposizione dei temi d’amore, di empatia, di rispecchiamento nelle piccole gioie e piccoli dolori che sono i temi cantati da sempre da Laura Pausini.
Su questa scia si inserisce il ‘Premio Lunezia Pop’ vinto nel 2009 da Tiziano Ferro per l’album Alla mia età[1]. Il disco presenta diversi luoghi che rispondono a una icona auditiva da tempo usata e vincente di Ferro. Si prenda il brano Il regalo più grande[2]: qui si ripropone uno stratagemma già vincente in brani del passato come Ti scatterò una foto[3], Ed ero contentissimo[4] o Non me lo so spiegare[5]: la staticità riconoscibile del passo «Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché/ di notte chi la guarda possa pensare a te», dove in un solo accordo viene infilata una serie di versi ritmati e affettati, reiterando la melodia sull’alternanza pervicace di due sole note, sullo stile del famoso «Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare» del brano Non me lo so spiegare, in cui la nota era una: chiaro marchio di fabbrica dell’emozionalità. Spesso, inoltre, questo porta anche a frasi non consequenziali sintatticamente, anacoluti che denunciano l’attenzione dell’autore più sulla resa ritmica del verso che sulla coerenza verbale. L’icona uditiva sopra ogni altra cosa, soprattutto sul rapporto codice-messaggio.
[1] T. Ferro, Alla mia età, EMI, 2008.
[2] Ivi.
[3] T. Ferro, Ti scatterò una foto, in Nessuno è solo, EMI, 2006.
[4] Ivi, Ed ero contentissimo.
[5] T. Ferro, Non me lo so spiegare, in 111, EMI, 2003.
PAOLO TALANCA
Nella “canzone d’autore” le parole, senza renderle orfane della consapevolezza che solo in quella precisa musica hanno un contesto e il modo di essere date, risultano decisive per l’elemento di scambio di esperienze, sensazioni, concetti che fanno la spola tra autore e ascoltatore per via di stratagemmi che spesso sono propri della poesia: immagini convincenti, figure retoriche, metriche, tratti soprasegmentali fonici e non, sono necessariamente i medesimi della poesia, anche se utilizzati in quel particolare frangente creativo che non può prescindere da quella melodia e successione armonica. Anche quando il dispiegarsi del testo ha un andamento più prosaico e narrativo, in questi autori non manca mai la particolarità intertestuale di un tema caro, una poetica ben riconoscibile, un identificabile modo di creare, comunicare ed esprimersi. Ma la risultanza identificabile non è mai creata modellando la propria produzione al gusto del pubblico, non si va verso il pubblico; l’identificazione è rilevata a posteriori ed investe la cifra stilistica dell’autore e le mille diverse possibili reazioni del fruitore. L’arte e la reazione creata non è mai univoca.
Queste canzoni permettono, insomma, un rapporto confidenziale e osmotico, di creazione e ri-creazione accuratamente artigianale tra autore e fruitore. Così ci si muove, grazie all’assenza di univocità, si crea vita e, come visto sopra, si rende all’arte artigiana il suo giusto significato.
PAOLO TALANCA
Possiamo immaginare, schematizzando, la canzone d’autore come contrapposta alla canzonetta commerciale o più dichiaratamente pop. L’intenzione musical-letteraria è dichiaratamente artistica, non di costume, non di mercato, non di identificazione preconcetta. Anche se spesso sa fare costume da vendere e crea identificazione. Ma, ad ogni modo, la spinta dovrebbe essere in primo luogo artistica.
Il caso di Smisurata preghiera è un caso emblematico di grande canzone d’autore.
L’ultimo grande capolavoro di Fabrizio De André.
Ultimo perché tratto dal suo tredicesimo e ultimo album di inediti, Anime salve (1996), la meravigliosa opera scritta a quattro mani con Ivano Fossati, probabilmente tra i dischi più importanti della discografia di entrambi. Un lavoro di rara raffinatezza musical-letteraria, 9 tracce di altissimo profilo musicale e testuale (Princesa, Khorakhanè, Anime salve, Dolcenera, Le acciughe fanno il pallone, Disamistade, Â cùmba, Ho visto Nina volare, Smisurata preghiera) tutte entrate di diritto nella storia della canzone italiana. Musicalmente, Anime salve, può essere forse considerato l’album più ricco di Fabrizio De André in cui, oltre alla sapiente mano di Ivano Fossati, si notano il curatissimo lavoro di arrangiamento di Piero Milesi e la solida formazione composta dai migliori musicisti di canzone che abbiamo in Italia, come ad esempio il batterista Ellade Bandini e il chitarrista Michele Ascolese, ma anche, speciali presenze, Franco Mussida, Riccardo Tesi, i figli di Fabrizio, Cristiano e Luvi, e la moglie Dori Ghezzi.
Smisurata preghiera è peraltro l’ultima traccia del disco, quasi un congedo definitivo, una summa tematica dell’album tutto e, in un certo senso, dell’intera produzione di De André. Ultimo ne è la parola chiave. Agli ultimi è dedicato Anime salve, agli emarginati, agli “spiriti solitari”, come suggerisce l’etimologia del titolo. Così come i dimenticati, i reietti, tutti quelli che viaggiano “in direzione ostinata e contraria” sono da sempre i soggetti nei quali Fabrizio De André ha scavato con maggiore profondità, con più alta grazia, con impareggiabile capacità descrittiva.
Di conseguenza Smisurata preghiera è considerata il testamento spirituale di De André. La preghiera smisurata perché enorme, universale, ma anche perché fuori misura, improbabile, la richiesta di un impossibile riscatto da parte del popolo dei “servi disobbedienti alle leggi del branco” che in nome della libertà hanno scelto la strada della solitudine, la strada della diserzione. Tratto e ripensato a partire dalla saga di poesie dello scrittore colombiano Alvaro Mutis su Maqroll Il Gabbiere, il brano si apre con una figura ritmica molto caratterizzante portata dall’ottimo Elio Rivagli sulla quale si appoggia la corposa e cruda voce di Fabrizio, che nell’incipit testuale ritrae le orribili fattezze della maggioranza, “alta sui naufragi”, “china e distante sugli elementi del disastro”, attraverso un’inversione di soggetto e complemento di modo, geniale perché lunghissima, tanto da non risolversi neanche alla fine della prima strofa ma addirittura alla fine della seconda con quel “la maggioranza sta” così interessante da poterci trovare anche il significato che si usa giocando a sette e mezzo del verbo stare. La maggioranza non ha bisogno di nient’altro, “sta”, è sazia, satolla, pur alimentando il peggio, guidando guerre e devastazioni e pur dovendo continuamente autoalimentarsi attraverso “inesauribili astuzie”, “superbie”, “ambizioni meschine” e “millenarie paure”. Il testo continua rincarando la dose, e la musica, di conseguenza, infoltisce la figura ritmica rendendosi maggiormente ostile e plumbea, mentre la voce descrive ulteriormente in che modo la maggioranza sta alla minoranza, ovvero “come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine”.
A questo punto si chiude nettamente la prima parte, descrittiva, e si passa nel secondo blocco all’invocazione vera e propria, alla preghiera rivolta direttamente al Signore. E, alzando il tiro, alzando lo sguardo al cielo, alzando il livello da quello bassissimo della scandalosa maggioranza fino all’altissima grazia di chi “tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”, non poteva che alzarsi anche la tonalità del brano, esattamente di un tono, esattamente in un magistrale esempio di arte musical-letteraria. Ancora un preludio alla richiesta vera e propria con una descrizione dell’obiettivo della preghiera, ovvero, gli ultimi, appunto, fino ad arrivare al luminosissimo, purissimo finale, la chiusura di un cerchio, il finale di una canzone come il finale di un’intera poetica, il finale di una vita per l’inizio di un riscatto: “non dimenticare il loro volto, che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”. A suggellare la preghiera una lunghissima coda strumentale che va via diradandosi fino a toccare i 7 minuti e qualche secondo. A chiudere il brano, a chiudere il disco, a chiudere un’opera quasi quarantennale.
L’ultimo smisurato capolavoro di Fabrizio De André.
PIERLUIGI ” PIJI ” SICILIANI
Altro caso di ‘Premio Lunezia Canzone d’Autore’ più recente è quello di Max Manfredi nel 2009 per il disco Luna persa[1]. Sfruttando l’unisona compenetrazione di testo-melodia-armonia, si può citare dall’album un brano come Il regno delle fate che, per esempio, si serve di un andamento dondolante della melodia e del suo ritmo, che stordisce, per descrivere con taglio cinematografico la realtà di un viaggio in treno, fino a sfociare agilmente in una situazione apocalittica e in una meta-realtà. D’altra parte, in ogni verso il movimento dell’armonia che indugia a piacere sull’accordo di V grado rende l’idea di completa libertà, che cozza decisamente con la gabbia metrica costruita nel brano. Tutto questo perché Manfredi non costruisce una canzone a seconda di ciò che potrebbe piacere, ma usa gli elementi – gradevolezza, spigoli, lento o veloce etc. – in maniera del tutto funzionale a ciò che vuole dire e, chiaramente, viceversa. Si prendano brani come Aprile o quello che dà il titolo all’album: Luna persa. In Aprile una musica sofferta veicola una parte del testo in cui i patemi dell’amore rendono il mondo confuso, perso, tormentato; tutto questo fino ai versi «Ma è aprile, si sente che c’è il sole/ fate presto, bambine, finché è aprile», passo più orecchiabile e arioso, in cui l’amore chiede di aprirsi al mondo: però per l’ennesimo inganno . In Luna persa, d’altro canto, tramite un ritmo singhiozzante, ma che cambia in uno pseudo-ritornello, si vuole esorcizzare la facilità di una melodia accattivante in un’epopea lirica di dodici minuti. Manfredi sembra proporre un’alternativa umana al linguaggio della pubblicità; è un mondo di antieroi desolanti e spietati – santa etimologia! –, che si muovono in maniera frantumata ed evitano accuratamente i clamori dell’apocalisse, su cui di certo qualche pubblicitario provvederebbe a speculare. Tutto questo è un esempio magistrale dell’arte musical-letteraria, che sembra essere non consumabile nella logica di un 3×2.
Da qui deriva una differenza fondamentale, forse la più importante tra pop – che abbiamo visto poco sopra per Laura Pausini e Tiziano Ferro – e canzone d’autore: quella tra icona e poetica.
L’icona è presente nel pop ed è l’immagine che viene fuori dal rapporto tra codice, contesto e destinatario: vede nella propria ripetizione – e nell’indispensabile riconoscimento – ogni volta consumata, la fine e il fine stesso del proprio ruolo.
La poetica è presente nella canzone d’autore e viene fuori dal rapporto tra mittente, codice e messaggio: vede la ripetizione non nel messaggio in sé ma soprattutto nel modo di essere veicolato, creando ripetizione in ogni momento fruita[2], non consumata, che perciò si rigenera ogni volta in forme diverse e – a ben vedere – dribblando ‘scientemente’ l’essenza stessa della ripetizione. Non è l’azione del ripetere ad essere imprescindibile, ma la traduzione, tramite lo stesso messaggio o tramite messaggi diversi.
La canzone d’autore non cerca l’icona riconoscibile ma obbedisce a uno stile personale, a una poetica. Insomma: l’icona (CANZONE POP) è la scelta giusta e che funziona, che si ripete in quanto giusta; la poetica (CANZONE D’AUTORE) è una scelta personale tra le tante possibili, che si ripete in quanto proprio modo di fare.
PAOLO TALANCA
[1] M. Manfredi, Luna persa, Ala Bianca/Warner, 2008.
[2] Per la differenza tra ‘fruire’ e ‘consumare’ in quest’ambito cfr. P. Talanca, Cantautori novissimi. Canzone d’autore per il terzo millennio, Bastogi, Foggia, 2008, p. 12.
Senz’altro riconducibile a moltissime soluzioni formali, la canzone rock si rende però immediatamente riconoscibile per la sua precisa esplosione di aggressività, intesa come liberazione, sollievo, magari riscatto. All’origine una branca del blues, ne semplifica i ritmi e tende a schematizzarli, per lasciare spazio ad una fluidità che permetta di sfogare meglio l’insita necessità di ribellione (dunque suoni elettrici, spesso distorti, affiancati da un canto difficilmente pulito e magari urlato).
Accostabile alla cultura beat e a molti movimenti conflittuali specie degli anni ’60, la canzone rock più tipica mantiene nel tempo l’idea forte di un’anti-convenzionalità, anche se non circoscrivibile ad un ambito politico, anzi più vicina ad argomenti sociali, anche per quanto riguarda i rapporti interpersonali. Si condensano dunque parallelamente una musica elettrica ed un testo altrettanto elettrico, che nella maggior parte dei casi – partendo da una vera e propria sofferenza interiore – esprime una rivendicazione di libertà, magari di identità, o forse persino di leggerezza.
L’opera di Luciano Ligabue – come qualunque altra forma di rock – assorbe esperienze diverse tra loro, dal beat italiano a quello americano, dal rock&blues fino alle più recenti forme di rock, senza tenere conto del legame (perlomeno affettivo) che ha con la canzone d’autore italiana. Tuttavia, sono rintracciabili alcune delle linee guida indicate: una sofferenza dovuta alla precarietà del proprio ruolo (come uomo, non come artista) nella società; attaccamento al viaggio e al vagabondaggio tipicamente beat (temi come le strade, le autostrade, le automobili e persino i caselli ricorrono nella sua opera); la rivendicazione di un’identità forte e precisa nel continuo riferimento alle sue origini geografiche; una voce arrochita e incattivita dal proprio malessere. Un esempio abbastanza rappresentativo, a questo proposito, è riscontrabile nel brano Sulla mia strada, di evidente e voluta semplicità formale, che ad un intreccio di chitarre elettriche e un ritmo elementare ma coinvolgente, affianca tematicamente una forte dichiarazione di coerenza. Dopo aver elencato come gli altri – la collettività, la società – desiderano che sia, l’io lirico (in questo caso giustificatamente identificabile con l’autore stesso), ha un moto di ribellione, su un ritmo che decelera prima di risalire ed esplodere nel ritornello-dichiarazione, un momento di efficace espressione musical-letteraria: “di’ un po’: te come ti vogliono?”. Dunque, ecco la ribellione e l’attaccamento alle proprie radici (geografiche e culturali, non a caso espresse dall’immagine della strada, la propria):”sono vivo abbastanza / per di qua / comunque vada / sempre sulla mia strada”. Una sorta di che colpa abbiamo noi, quarant’anni dopo.
ANTONIO PICCOLO
Dopo aver visto nel riconoscimento iconico la principale prerogativa della canzone pop e nel rapporto sempre nuovo tra stratagemmi poetici – di forma e/o contenuto – del testo e le sue relazioni con la musica una peculiarità per la canzone d’autore, addentriamoci nell’arte di chi sa creare in questi due mondi, di chi sa essere quindi ambivalente: Claudio Baglioni, in particolare nell’album Sono io, l’uomo della storia accanto, opera vincitrice del Premio Lunezia 2003.
L’aspetto pop è garantito sin dai temi trattati da Baglioni: canzoni come Mai più come te o Tutto in un abbraccio rappresentano delle chiare manifestazioni riconoscibili di un artista che ha da sempre saputo cantare l’amore, lo struggimento per una storia finita, le curve dell’emozione in tutte le sue sfaccettature. Baglioni per molti è “il cantore dell’amore” e con questi brani ripropone la sua icona, sicuro di arrivare immediatamente e di essere riconosciuto, in brani che, fra l’altro, hanno ritornelli aperti in cui la voce di Baglioni si può estendere in tutta la sua potenza, creando immediata individuazione del suo stile, oltre che dei suoi temi.
Di contro, nell’album sono presenti brani come Quei due o Patapàn, prove inconfutabili di una assoluta capacità autoriale e artigianale di creare arte dinamica – il contrario della ricerca statica dell’icona, si badi bene – sfruttando le possibilità armoniche e melodiche della canzone d’autore, unite a stratagemmi poetici. Prendiamo un pezzo come Patapàn: è una canzone in cui l’autore ricorda il padre e il “patapàn” vuole riproporre il suono onomatopeico di un fantomatico cavallo su cui il bimbo-Baglioni si immaginava in groppa, nelle passeggiate col padre in campagna. Il brano inizia con strofe introdotte da un ricordo, ma la situazione è di presente e un basso ostinato di tonica rappresenta una cosciente impossibilità di spiccare il volo, di malinconia sottopelle. Questa situazione rimane intatta fino al ponte che prepara al ritornello: l’armonia si muove per la prima volta decisamente con l’apertura di una accordo pieno di sesta minore, di chiara risultanza dinamica dopo la precedente e voluta monotonia; è un momento cruciale perché per la prima volta ci si stacca dall’ossessione del basso di tonica, dall’atmosfera di ricordo malinconico e ci si muove: è questo un puro esempio di inscindibilità fra parole e musica, quindi di suprema arte musical-letteraria; si sciolgono le briglie della musica e da qui parte una serie di ripetizioni della parola “patapàn”, come in galoppo.
E non è tutto: nell’infinita successione dei vari “patapàn” – mirabilmente eseguita da una voce “ritrovata” -, Baglioni si libera completamente della sensazione terrena. Oramai è al galoppo e supera l’ “Oltre” per mezzo di questo cavallo; la musica galoppa insieme al testo in una successione di accordi che fanno da contraltare – come già detto – alle strofe monotone. Magicamente e dopo questo climax ascendente, l’io poetico si trova di fronte il padre e lo saluta in tono del tutto familiare e la musica non può che cambiare ancora in un imprescindibile rapporto col testo: dopo la scossa già citata data dalla sesta minore si passa alla sesta maggiore, un accordo luminoso, abbacinante, un cambio di tonalità prepotente dopo un galoppo che acquisiva sempre maggiore fiducia di sé. In quel posto ci sono “strade di sentieri bianchi” (forse il “sentiero del sole” di Naso di falco, Baglioni, Oltre, 1990), da camminare senza stancarsi mai.
E patapàn patapàn
e patapàn patapàn
e patapàn patapàn
patapàn patapàn
patapàn patapàn
Ciao pa’
ma quante strade di sentieri bianchi
e quante ancora e ancora no non siamo stanchi
lo vedi come corro così veloce
dietro al tuo fischio e quella voce
se resti indietro aspetto sotto la croce
e scoppia il petto e in coppia
e andiamo avanti
e patapàn.
Il figlio Baglioni vuole dimostrare al padre che adesso riesce a correre veloce: “papà guarda come sono bravo” sembra dire ad una figura paterna che sembra quasi assente, proprio come lo sono nel sogno gli oggetti e le persone. D’improvviso però il padre resta indietro e sopraggiunge l’immagine di una croce, l’immagine di morte. Baglioni ripiomba immediatamente in terra, sotto una croce, di fronte alla croce del padre. Ci erano voluti tutti quei patapàn per raggiungerlo, ne basta uno per ripiombare giù: metafora impareggiabile della vita, si torna alla tonalità musicale originale, torna il basso ostinato, ricominciano i ricordi.
Il brano è anche disseminato di rimandi contenutistici e formali all’universo poetico dello stesso autore, elementi che davvero rappresentano spie di qualcosa “d’autore” – per questo diversi dalle icone del pop, dove l’autore va verso il pubblico costruendo per esso un’icona; qui è il pubblico che va verso l’autore, il quale non fa altro che proporre un proprio modo di comporre -; uno di questi rimandi d’autore è dato ad esempio dai “Ricordi infantili collettivi […]: accenni, versi o parti di versi, che richiamano alla mente situazioni riguardanti l’infanzia e legate alla vita di tutti, collocate nella memoria di ognuno di noi. Sono personali ricordi di circostanze che, verosimilmente, sono state vissute da tutti nella propria puerizia”. [Paolo Talanca, Immagini e poesia nei cantautori contemporanei, Bastogi, Foggia, 2006, p. 15]. Si possono citare passi del tipo “Sul ciglio di un burrone/ tu facevi quella finta/ di una spinta in giù/ ed io ridevo col fiatone” o, soprattutto, il “non poter capire/ perché non è come un tram/ su cui chi si vuol bene/ sale e viaggia e scende giù/ma tutti quanti assieme”, pensiero che accomuna i bambini che si immaginano nel futuro sempre insieme alle persone care o ai familiari, come a Natale … come non succede nella vita.
PAOLO TALANCA